PET THERAPY: QUALI ANIMALI, PER QUALI PATOLOGIE

Il termine “Pet Therapy” è stato usato per la prima volta da Boris Levinson all’inizio degli anni 60 ed è ancora oggi molto usato nel parlar comune e dagli organi di stampa.

Il termine Pet Therapy, letteralmente  si tradurrebbe in italiano come:  “terapia dell’animale da affezione”.

Analizzando dettagliatamente i termini si focalizza l’attenzione su due concetti base:

“Terapia” e “pet”, cioè animale da affezione.

 

ANIMALE DA AFFEZIONE

Per quanto concerne le specie animali da inserire nell’attività di Pet Therapy, si opera una  prima scelta drastica e discriminante che esclude tutti gli animali selvatici.

Questa esclusione, condivisa dalla maggior parte degli operatori del settore, si basa su motivi di carattere etico, etologico e pratico.

L’aspetto etico:

Gli animali sono esseri senzienti, capaci di provare la sensazione di benessere e la sofferenza fisica e psicologica, ma anche emozioni molto simili alle nostre.

La “Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Animale”, recita: “… ogni animale ha dei diritti… il disconoscimento e il disprezzo di questi diritti hanno portato e continuano a portare l' uomo a commettere crimini contro la natura e contro gli animali…”
All’Art. 4 dichiara: “Ogni animale che appartiene a una specie selvaggia ha il diritto di vivere libero nel suo ambiente naturale terrestre, aereo o acquatico e ha il diritto di riprodursi; b) ogni privazione di libertà, anche se a fini educativi, è contraria a questo diritto.”

Il punto di vista etologico:

Gli animali selvatici si sono evoluti adattandosi a un contesto ambientale diverso da quello antropico e soprattutto diverso da quello nel quale pretenderemmo di farli vivere e lavorare durante le sedute di pet therapy.

L’attività di Pet Therapy comprende momenti intensi di contatto con uno o più esseri umani, che manipolano ripetutamente e in maniera non sempre rispettosa, prevede la permanenza in luoghi chiusi ecc.

Tutte queste situazioni nell’animale selvatico, anche se addomesticato, confliggono con la  sua natura, chiudendogli ogni via di fuga, superando continuamente la sua distanza di sicurezza, imponendogli una manipolazione innaturale percepita come “predazione”, mettendo a rischio la sua incolumità fisica e psicologica.

Quando si parla di Pet Therapy, purtroppo si sente ancora parlare di animali appartenenti a specie selvatiche usati a “scopo terapeutico”, detenuti, spesso, in condizioni inidonee, irrispettose della loro natura e dei loro reali bisogni.

Mi riferisco ad esempio alla “delfino terapia” praticata in alcuni delfinari.

Il delfino, animale altamente sociale ed evolutosi per vivere negli immensi spazi pelagici, che comunica con i suoi simili attraverso suoni e ultrasuoni ed esplora il mondo intorno a se attraverso l’ecolocazione.

Possiamo ben comprendere quanto sia, per lui, opprimente e stressante il permanere per anni in una vasca di pochi metri, sottoposto al continuo rimbombo dei suoni suoi e dei suoi compagni di sventura, riflessi dalle pareti; non può meravigliare che ogni tanto un delfino o una sua parente, l’orca, esasperati, aggrediscano qualche guardiano. Se mai c’è da meravigliarsi che non succeda più spesso.

Il punto di vista pratico:

Un animale selvatico reagisce allo stress di un contatto ravvicinato con l’uomo, percepito come possibile “predatore”, nelle modalità tipiche di un animale selvatico; reazioni rapide e vivaci di  fuga o, se non è possibile, di difesa.

L’animale selvatico, anche se ben addomesticato, rimane comunque imprevedibile e non adatto a vivere nel contesto umano.

TERAPIA

L’altro termine “chiave” è “therapy”.

Il termine “Terapia”deriva dal greco θεραπεία (therapeía) che significa “cura e guarigione”, è legato all’idea di malattia e conseguente a una diagnosi, nell’accezione più tecnica, pone al centro dell’attenzione la malattia con l’obiettivo di  guarirla o almeno alleviarne i sintomi, in quella più “umana”  pone al centro dell’attenzione l’uomo malato, proprio in quanto “malato”.

Gran parte della società scientifica, soprattutto medica ha contestato duramente, e giustamente, l’idea che l’animale potesse essere considerato una terapia, come se si trattasse di farmaco o di una sorta di “medicina alternativa”.

Boris Levinson stesso non ha mai considerato, la Pet Therapy, una “Terapia” ma l’ha definita “Coterapia” o “Terapia di supporto”.

Il Comitato Italiano di Bioetica si è pronunciato, a tal proposito, in modo inequivocabile, dichiarando che la Pet Therapy non deve essere considerata una medicina alternativa.

Oggi, a livello internazionale, la terminologia è cambiata e non si parla più di Pet Therapy, ma di:

Terapia Assistita dagli Animali (Animal-Assisted Therapy) AAT che racchiude tutte le attività svolte con finalità terapeutiche e curative effettuate con l'ausilio di animali

Attività Assistita dagli Animali (Animal-Assisted Activities) AAA che sottende tutte le attività socializzanti, e non primariamente terapeutiche, svolte con l'ausilio di animali.

ed Educazione Assistita dagli Animali (Animal-Assisted Education) AAE  , di recente elaborazione, che studia il coinvolgimento guidato e pianificato, dell’animale da affezione, nel processo educativo.

Le AAT, AAA e AAE non sono perciò connesse al concetto di “animale terapeuta”, ma di animale come mediatore e aiuto nei processi che coprono un panorama molto più vasto.

Sul concetto di “terapia” con l’ausilio o il supporto dell’animale occorre, però fare ancora qualche considerazione.

Queste attività con gli animali, a scopo di cura, di socializzazione o educative, si basano sulla relazione, l’animale è capace di provare e di suscitare emozioni, ed è capace di comunicare efficacemente con l’uomo.

L’animale non usa un linguaggio verbale, che è specifico, necessario e funzionale alla peculiarità della specie umana e permette di trasmettere concetti.

L’animale domestico, selezionato da millenni per vivere in promiscuità con l’uomo, è in grado di comunicare con la nostra specie, attraverso un linguaggio non verbale che segue le vie delle emozioni e raggiunge il nostro livello libico, escludendo l’area corticale e razionale.

Se, ad esempio, un cane è contento di vederci, lo percepiamo a livello emotivo molto prima di aver razionalizzato: “Sta muovendo la coda, ha abbassato le orecchie...perciò deduco che è contento”. Accarezzare un cane cucciolo, ma anche un adulto paffuto, è un’azione che sorge spontanea e risponde alle nostre emozioni, prima di aver razionalizzato che l’animale presenta quei tratti somatici “infantili” che Konrad Lorenz identificava come funzionali a creare nell’adulto una reazione di “adozione” e di “protezione”, così come accettare, e gradire, che ci venga a contatto per farci le feste, superando la nostra distanza prossemica…

L’efficacia della terapia con l’animale si basa sulla capacità che questo ha di comunicare e di comprendere la nostra comunicazione, provare e suscitare emozioni, essere empatico… è cioè un’attività che non può che essere definita “relazionale”.

Come tutte le relazioni non è replicabile a comando o standardizzabile, può essere forte ed intensa nel contesto del momento:  “Qui e ora”.

La Terapia con l’ausilio degli animali non può essere, perciò, somministrata come un farmaco, ma ogni momento terapeutico è unico ed irripetibile.

La comunità medico scientifica, forse ancora troppo legata agli aspetti tecnici, biochimici e a un concetto scientifico “positivista”, chiede alla pet therapy di produrre l’evidenza scientifica della sua efficacia, ma non è possibile dimostrare, in modo inequivocabile, l’evidenza scientifica della “terapeuticità” di una relazione.

Soprattutto, non è possibile dimostrare con il metodo positivista della replicabilità in laboratorio.

La pet therapy non modifica i valori ematochimici, non abbassa la pressione arteriosa, non riduce il colesterolo, o almeno, non è inconfutabile, che se succede ciò sia a causa della pet therapy, però fa star bene, aumenta la percezione di benessere, riduce quella di malessere…

Sono in corso vari studi sulle modificazioni dei parametri biochimici durante le sedute di Pet Therapy, ma i risultati sono interpretabili in modo non univoco:

Il dosaggio delle endorfine definite “ormoni del benessere”, mostra un aumento degli stessi durante e al termine delle sedute di pet therapy, ma in molti soggetti, questi sono già elevati prima della seduta, e permangono elevati anche tra una seduta e l’altra.

Può significare che il soggetto, a contatto con l’animale, prova piacere, ma anche che l’aspettativa della seduta già stimola la produzione di endorfine, oppure, ancora, che le persone che hanno un livello più elevato di endorfine sono più propense a socializzare e quindi a entrare in relazione con l’animale…

Se si potesse provare scientificamente che la pet therapy ha un’efficacia terapeutica standard, si potrebbe pensare di somministrarla  come una medicina: “un’ora al giorno, a giorni alterni per un mese, prima dei pasti”.

E’ evidente che non può essere così; a Lucia, che ama gli animali fa bene, a Mario che ne ha paura, crea ansia e patologie da somatizzazione, a Franca, che ama i gatti, l’attività con un cane può creare difficoltà, a Mariangela che ha perso un figlio, il legame con un cane che non è suo e che sarà portato via, potrebbe riaprire dolorose ferite…

D’altra parte, questa è relazione.

Per quali patologie è indicata la Terapia con gli animali? In realtà per nessuna patologia in quanto tale.

Il termine stesso di “terapia” è fuorviante, il concetto di terapia pone al centro dell’attenzione la “malattia”, o, nella migliore delle ipotesi “l’uomo malato”.

L’attività con gli animali si rivolge invece all’uomo in quanto tale, nella sua unità e unicità.

In quest’accezione non ha più senso chiedere l’evidenza scientifica della terapeuticità dell’attività con gli animali.

Oggi si permette, normalmente, alle mamme di stare vicino al proprio bambino ricoverato in ospedale, ma nessuno chiede l’evidenza scientifica di questa scelta, eppure non è scontato che la presenza della mamma sia sempre e in assoluto positiva.

L’attività terapeutica con gli animali deve perciò considerare molti aspetti: il contesto, la soggettività animale, la soggettività umana…, deve necessariamente articolarsi attraverso  un lavoro di equipe pluridimensionale e in un patto terapeutico tra i soggetti umani e non umani che in questa attività si inseriscono.

La terapia con gli animali esce, perciò, dall’ottica della standardizzazione delle terapie per abbracciare quella dell’umanizzazione e della personalizzazione delle cure.

La domanda corretta sarebbe perciò, non “Quale patologia può trarre beneficio dall’interazione con un animale?” ma piuttosto: “Quale persona, in questo contesto, può trarre beneficio dall’interazione con un animale?”.

Nella cultura anglosassone le parole “Cure” e “Care” hanno un significato diverso da quello di “Therapy”.

Care; Caring sottintende il concetto di “avere cura”, “prendersi cura”, “occuparsi di…” e  Cure traducibile come: “cura”; “guarigione”.

Ecco, nella pratica della Pet Therapy è, a mio avviso, necessario andare oltre il concetto di Terapia Assistita dagli Animali, pensare a un percorso relazionale che, grazie alla mediazione animale, aiuti l’uomo, in condizioni di debolezza, di disagio e di difficoltà a essere artefice del proprio processo di guarigione e che potremmo definire più propriamente ”Assistenza Animale nella Cura”.

 

 

G. Sampietro